Il sacrificio del cervo sacro

Non è certo un cinema compiacente quello di Yorgos Lanthimos, regista greco che ha trovato negli Stati Uniti la sua affermazione internazionale. Lo avevamo intuito già col precedente The Lobster, un’amara metafora della società in salsa fantascientifica, dove il regista prima gioca a stranirti e disorientarti, per poi colpirti a tradimento con un pugno forte nello stomaco. Lo stesso accade in quest’ultimo Il sacrificio del cervo sacro dove una situazione sospesa nel tempo e nelle emozioni improvvisamente precipita diventando una tragedia fosca di stampo classico.

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Colin Farrell è Stephen, un cardiologo di fama. Sposato con Anna (Nicole Kidman), un’oftalmologa ben affermata a sua volta, ha due figli belli e sani. Da qualche tempo l’uomo incontra al termine del lavoro Martin, il figlio di un uomo morto sotto i ferri mentre era lui ad operare. Tra i due sembra esserci una sorta di algida simpatia con il dottore a prendere il posto del padre defunto. Ma presto quella che potrebbe essere una bella e disinteressata amicizia si trasforma in un incubo. Martin infatti chiede al medico un risarcimento per la perdita del padre: l’uomo dovrà uccidere un componente della sua famiglia, altrimenti perderà tutti quanti con una morte lenta, dolorosa e inesorabile. La minaccia sembra campata in aria senonché Bob, il figlio minore comincia perdere l’uso delle gambe e successivamente a smettere di nutrirsi. La stessa sorte poi tocca a Kim, l’altra figlia. A questo punto Stephen deve prendere una decisione. E qualunque essa sia sarà sicuramente una tragedia.
Deve essersi divertito un sacco Lanthimos quando ha scritto e girato Il sacrificio del cervo sacro, immaginandosi per prima cosa lo spettatore letteralmente spiazzato davanti a una rappresentazione moderna del mito di Ifigenia e senza risposte alle mille domande sul perché accada una cosa del genere e soprattutto perché possa accadere. Ma il suo cinema non è fatto di risposte, solo di disagio, dubbi, angoscia. Un po’ macabro e venato di un crudele umorismo nero Il sacrificio del cervo sacro rimane comunque un ottimo film dotato di un segno ben riconoscibile che fanno di Lanthimos uno dei più promettenti registi del momento.

Criminali

“Ah, non viene molta voglia di avere figli – mi comunica – Dov’è il bello? Davvero, cosa ci si ricava?”

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“Non saprei. Forse ti evita di inaridire. Cioè, Elisabeth te lo spiegherebbe molto meglio di me. Ma l’idea di avere qualcosa da trasmettergli è una cavolata, credimi… Senti, ti dico una cosa: le maggiori gioie della vita, quelle da lacrime agli occhi, giuro, le ho avute quando Patrick era piccolissimo e lo guardavo dormire. E sai? Per me, procurargli una felicità anche lontanamente simile è impossibile, ah, non c’è pericolo, tutta la fregatura sta qui, in queste accidenti di emozioni che hai ricevuto in un determinato momento e funzionano solo a senso unico. Non si gioca nella stessa categoria, ecco. E’ come nella barzelletta del cieco costretto ad attraversare la strada. Uno vuole rendersi utile, per amore o per forza. Per ricambiare, capisci. Ma anche perchè crede di aver trovato quello che fa per lui, in un certo senso, un posto dove sistemarsi al meglio. Insomma arrivi con tutto il tuo bagaglio, tutto l’ambaradàn accumulato lungo la strada, e ti ritrovi davanti alla fessura di una cassetta per le lettere. Capisci il problema? Non passa quasi niente. E niente di veramente utile. Sono i tuoi casini personali, roba esclusivamente tua, e non vuoi ammettere che non possano valere nemmeno un soldo bucato, per un altro”

“Così siamo tutti scontenti”

“Esatto. Per non dire furiosi”

“Be’, senti, non inaridire costa un occhio della testa. Bisogna davvere volersi mantenere idratati…”

“Eh sì. O così, o latte detergente a litri”

(Philippe Djian – Criminali)

Ippocrate

Ci ha messo un po’ ma alla fine è arrivato anche sugli schermi italiani. Ippocrate il film di Thomas Lilti, fu presentato a Cannes nel 2014 e lo stesso anno guadagnò diversi César (gli Oscar francesi) facendo conoscere un regista che fino a quel momento aveva lavorato più sulla scrittura che dietro la macchina da presa.

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“Da adolescente avrei voluto diventare regista – ammette il regista – ma dietro la pressione dei miei genitori capii che era necessario intraprendere degli studi seri, e visto che mio padre era medico, optai per medicina per garantirmi un futuro”. E siccome ogni esperienza può diventare una storia, ecco che l’apprendimento del giovane Lilti diventa per trasposizione la storia di Benjamin, giovane medico tirocinante atteso dal suo primo giorno nel reparto di medicina interna dove lavora il padre. I mezzi sono scarsi, l’organizzazione è raffazzonata, ma la passione sopperisce dove queste mancano. Così, insieme a Abdel, medico straniero in Francia per l’apprendistato, si troverà ad affrontare piccoli e grandi problemi, scoprendo il valore dell’amicizia e dalla solidarietà, ma anche la paura e la preoccupazione di non essere all’altezza di un compito che potrebbe costare la vita ai pazienti.

“Quello del medico non è un mestiere è più una specie di maledizione”, ammette Abdel e il racconto di Ippocrate ci svela quanto sia determinante il fattore umano, molto più di qualsiasi medicina. “In TV la rappresentazione dell’ospedale avviene attraverso immagini stereotipate racconta ancora Lilti – mentre io mi sono rituffato nei miei ricordi per ritrovare le emozioni vissute in quegli anni. La dimensione romantica di Ippocrate non ha fondamenta solide, se l’ambiente non è credibile in ogni dettaglio, anche il più piccolo”.

Umanità e realismo sono le qualità migliori di Ippocrate, un film solo apparentemente piccolo (perché girato prevalentemente in interni e con pochi mezzi), che grazie alla capacità di rappresentare i sentimenti diventa universale. L’ambientazione ospedaliera, ben distante da quella del Dottor House, citato e sbeffeggiato nel film, diventa così il luogo ideale per la messa in scena di una bella storia di amicizia tra chi vive nel privilegio e chi deve lottare anche solo per non farsi sopraffare.

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Due piccoli italiani

La diversità si presenta in tanti modi, anche sotto forma di un’amicizia quantomeno eccentrica. Salvatore e Felice sono ricoverai in una casa di cura mentale da anni: il primo, addetto alle pulizie, vive una sessualità repressa nascondendola dietro improvvisi scatti d’ira; il secondo, tenero mattocchio di paese, è alla perenne ricerca della madre che, a detta sua, l’avrebbe abbandonato da piccolo per continuare la sua carriera di cantante in Olanda. La madre di Felice è nella sua fantasia fanciullesca l’Olandesina della pubblicità della Mira Lanza (quella che affiancava il pulcino Calimero, per intenderci) e l’uomo vorrebbe raggiungerla un giorno in Olanda per poterla riabbracciare. L’occasione per scappare dalla casa di cura avviene la notte in cui Salvatore, in preda a un eccesso d’ira, ferisce due infermieri e, per non essere catturato, si rifugia insieme a Felice su un pullman di ultrà olandesi di ritorno a Rotterdam. Raggiunta l’Olanda i due si imbattono in Anke e nella generosità di tanti sconosciuti che si stringeranno attorno ai nostri due piccoli italiani aiutandoli a superare le loro insicurezze.

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“Il viaggio che i due protagonisti intraprendono rappresenta la necessità di reagire alle difficoltà – racconta il regista e interprete Paolo Sassanelli – aprendo una porta e uscendo di casa alla ricerca della felicità. E le scoperte di situazioni, realtà e persone inaspettate che li travolgono e insegnano loro il senso della vita, dell’amore e della gioia, dell’emozione è il senso del viaggio di Salvatore e Felice”.
Due piccoli italiani di Paolo Sassanelli, regista e attore teatrale di successo, è un filmino tenero, coraggioso ma fragile come i due protagonisti. La trama strutturata a road movie, come spesso accade, nasconde nello spostamento continuo dei buchi di sceneggiatura, compensati però dal tratteggio di personaggi di carattere, tra i protagonisti e i comprimari. E non è poco, perché in un film che fa della dolcezza e della tenerezza la sua qualità principale, disegnare dei personaggi col cuore grande significa aver colto nel segno. L’interpretazione di Sassanelli e di Francesco Colella (Piuma), altro splendido attore di teatro uscito dalla scuola di Ronconi, poi fa il resto. E a quel punto la storia può andare anche a farsi benedire.

The Strangers – Pray at night

Un film di paura funziona quando fa paura. Lo so che detta così sembra la più banale delle banalità, ma quanti sono gli esempi di thriller, horror o splatter che più che brividi, scatenano sbadigli? Ecco, The Strangers-pray at night fa paura. Oltre quello niente di più, ma il minimo sindacale richiesto lo porta a casa. Se ci mettessimo ad analizzare trama, dialoghi e recitazione potremmo già chiudere qui la recensione, ma se ripensiamo all’inquietudine e al lieve stato d’ansia che ci ha accompagnati durante la (grazieaddio) breve cronaca di un massacro annunciato, allora qualche merito al film dobbiamo riconoscerlo.

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Kinsey è un’adolescente ribelle e problematica, come siamo ben abituati a conoscere nei film americani. A scuola ha più di un problema e i genitori, dopo l’ennesima sospensione, decidono che è ora di cambiare aria e college. Insieme col fratello Luke partono con la roulotte approfittando del viaggio per fermarsi a salutare i parenti che vivono in un camping. Pessima idea. Perché il campeggio è stato preso di mira da tre psicopatici mascherati che, senza motivo, uccidono uno dopo l’altro che si trovi all’interno dell’area.

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“Perché lo fate?” – chiede Luke a uno degli assassini durante un combattimento “Perché no” è la laconica risposta. E The Strangers- pray at night potrebbe essere riassunto in questa affermazione: essenziale, acuminata e letale. Il film è ispirato a The Strangers, l’inatteso successo di Bryan Bertino uscito nel 2010, e come nell’originale i personaggi finiscono per essere semplici pedine di un gioco al massacro gestito da tre antagonisti mascherati che perseguitano senza una ragione le loro vittime. “In questo film – ha dichiarato il regista Johannes Roberts – non volevo fare affidamento sui salti di paura per far reagire il pubblico. Questo è più un film sullo sgomento e la paura”.

L’atelier

E’ il potere salvifico della cultura (in questo caso della scrittura) una delle poche speranze alla quale possiamo aggrapparci oggi. “I giovani oggi devono trovare il proprio posto in un mondo che ha per loro una scarsa considerazione, la sensazione di non aver nessun controllo sulle cose e tanto meno sulle proprie vite – sostiene Laurent Cantet, regista de L’atelier – Ma soprattutto sono costretti a confrontarsi con una società violenta e lacerata da terribili questioni politiche e sociali, come l’instabilità economica, il terrorismo o l’affermazione dell’estrema destra”. Allora per uscirne, bisogna fare affidamento alla forza della bellezza e della rinascita intellettuale.

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Olivia Dejazet, affermata scrittrice di romanzi gialli, decide di accettare l’incarico di guidare un’atelier di scrittura creativa a La Ciotat, città al sud della Francia, ex ricco cantiere navale e ora in piena crisi economica. Tra i giovani partecipanti al laboratorio, Antoine è di sicuro quello più di talento, anche se è il carattere introverso e aggressivo a prevalere sulle sue qualità letterarie. Spesso il giovane si trova a scontrarsi con gli altri per questioni politiche e razziali e la tensione nel gruppo è sempre più palpabile. Olivia guida e dirige il gruppo cercando di smorzare i toni e sedale le provocazioni ma, nel momento in cui pensa di aver acquistato sicurezza sul gruppo e Antoine in particolare, la situazione le sfugge di mano aprendo la possibilità di un inquietante epilogo.

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L’Atelier, scritto a quattro mani dal regista insieme a Robin Campillo (autore del recente 120 battiti al minuto), riporta Cantet in Francia, dopo la breve deviazione statunitense di Foxfire, ragazze cattive, ma soprattutto permette all’autore di continuare il suo discorso sulle nuove generazioni e i conflitti politici che, loro malgrado, le coinvolgono. Un tempo era la lotta operaia a dettare le azioni degli uomini, oggi è lo sconcerto per il vuoto pneumatico di aspettative e sogni a segnare l’immobilità. E Cantet è bravo a descriverla con le tante parole che i ragazzi si scambiano sotto l’occhio attento dell’adulto nel laboratorio di scrittura. Ma Cantet è bravo soprattutto a non lasciarsi andare allo sconforto e lanciare un messaggio di speranza che apra l’orizzonte chiuso di una generazione depressa.